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Ogni studio sulla danza teatrale nel Settecento s'imbatte inevitabilmente in un nodo problematico: l'oggetto della ricerca non è (più). Di esso sono rimaste soltanto alcune tracce ovvero una serie di materiali eterogenei programmi di ballo, spartiti, incisioni, trattati di danza, appunti - che rimandano a un evento irrimediabilmente perduto nella sua forma. Il presente volume mette a tema proprio questa assenza, interrogando la congerie di effetti sopravvissuta al ballet d'action attraverso una ricognizione dello "sforzo" di dire la danza che caratterizza tutto il XVIII secolo. Nello specifico, a partire dalle opere riformatrici di G. Angiolini e J. G. Noverre nonché dai testi di diversi filosofi coevi interessati allo statuto del gesto, viene messa a fuoco la complessa relazione che lega parola e movimento corporeo, da una parte, danza e arte visiva, dall'altra, al fine di approfondire il profilo della disciplina tersicorea all'interno del più ampio sistema della rappresentazione settecentesco. Da questa analisi emerge come il segno negativo che contraddistingue variamente il ballo e il dibattito critico su di esso nel XVIII secolo sia da ricondurre non soltanto al particolare campo d'indagine ma all'essenziale matrice espressiva del gesto stesso e abbia contribuito a un progressivo slittamento del paradigma classico della mimesi della natura da un'accezione puramente "imitativo-riproduttiva" a un modello più complesso di stampo "espressivo-creativo".